i racconti - Nemmonnemmai
la fila
Da quando era stato inaugurato, poco più di un anno prima, il grande supermercato alimentare aveva avuto un successo superiore ad ogni ottimistica previsione. Gli esperti che avevano suggerito l’insediamento nel centro del Vomero avevano avuto ragione e i dirigenti della Società che se ne erano lasciati convincere avevano motivo di rallegrarsene. Il progetto di aprire un nuovo punto di vendita in una zona già ricca di grandi empori li aveva inizialmente lasciati perplessi ma gli uomini del marketing avevano insistito nel proprio parere:
“Anche il Vomero è ormai sovrappopolato, ha perso le sue caratteristiche residenziali conservando però quelle di rione più abbiente. I suoi negozi, compresi i supermercati già esistenti, sono sempre affollatissimi di clientela, registrano velocità di smercio impressionanti. Date retta a noi, se a differenza di altri risolverete opportunamente il problema del posteggio delle autovetture realizzerete un affare senza precedenti”.
Il posteggio era stato ricavato nei due vasti piani cantinati e aveva subito incontrato il favore del pubblico anche per la sua regolazione automatica.
All’ingresso un distributore rilasciava il talloncino che abilitava la clientela, una volta effettuata la spesa per un importo non inferiore a ventimila lire, ad ottenere gratuitamente il tesserino magnetico necessario per azionare all’uscita la doppia sbarra che impediva anche astuti accodamenti. Il tesserino, ingoiato dal dispositivo, tornava alle casse attraverso il sistema pneumatico.
Gli affari andavano a gonfie vele e il gestore, un lombardo scelto tra i dirigenti più affidabili, stava vivendo il suo momento magico. Non si stancava di raccomandare al personale correttezza e cortesia e si adoperava incessantemente per mantenere elevato il tono dell’ambiente e risolvere accortamente ogni problema grande o piccolo che insorgesse anche nei confronti della clientela. Ai vigilanti, soprattutto, suggeriva discrezione: “Voi dovete imitare quegli arbitri delle partite di calcio che conoscono veramente il loro mestiere: essere efficienti senza che il pubblico si accorga della vostra presenza”.
L’affluenza del pubblico, ingigantendosi rapidamente, aveva evidenziato ben presto l’insufficienza delle casse di pagamento, otto compresa quella rapida. I carrelli colmi di merce formavano lunghe code e gli acquirenti, costretti ad attese che nelle ore di punta superavano anche i trenta minuti, dimostravano sempre più vivacemente la propria insoddisfazione. Il gestore segnalò l’esigenza di installare almeno altre quattro casse e la Società avviò subito il progetto per la ristrutturazione degli spazi e i lavori conseguenziali.
I tempi tecnici, però, non erano brevissimi e il gestore ebbe il suo gran daffare per non disaffezionare intanto la clientela e subirne pazientemente i reclami. Le proteste si somigliavano, lamentavano la carenza del servizio che, o1tre alla dilatazione dei tempi d’attesa, provocava il risentimento per gli inevitabili tentativi di scavalcamento delle file da parte dei soliti furbi.
“Non possiamo avvelenarci la giornata perdendo tempo prezioso e altercando tra noi. Avete ottima merce, grande varietà di scelta e prezzi vantaggiosi, ma così non può durare! C’é gente che non vuole darsene per inteso di rispettare la fila, anche coloro che acquistano non più di due prodotti evitano la coda lunghissima alla cassa rapida e cercano in un modo o nell’altro di passare avanti. Si affiancano a chi è già in prossimità delle casse e, mostrando quel poco che hanno in mano, con un sorriso accattivante chiedono il favore della precedenza. In genere l’ottengono perché nel caso diverso la loro scortesia si trasferisce a chi oppone il rifiuto, ma tutti gli altri che vengono dietro non possono tollerare che la cosa si ripeta innumerevoli volte prima che arrivi il proprio turno. Quella gente finge ipocritamente di non sapere che la propria richiesta non isolata l’accomuna in un comportamento di insolente villania. Insomma, dovete provvedere ad accelerare il servizio di cassa se volete conservare la clientela ed evitare che succedano alterchi”.
I vigilanti furono esortati a intensificare i propri interventi per assicurare l’ordine con prudente fermezza e fu uno di loro che un giorno riferì al gestore:
“La cosa si fa sempre più difficile. I furbi non desistono e le dispute corrono spesso il rischio di degenerare. Adesso, poi, ci si sono messi anche i minorenni, che riescono a impietosire più facilmente alcuni dei clienti già in fila. Sono sempre più numerosi i ragazzi, talvolta anche sotto i dieci anni, che si presentano con uno o due articoli e chiedono di passare, alcuni non chiedono neanche, passano e basta”.
“Voi come vi regolate?”.
“Nel loro caso lasciamo gli avventori a sbrigarsela, ma certamente non risolviamo il problema. Spesso sono le cassiere a fare le spese del risentimento generale. Questo dei ragazzi sta diventando un problema nel problema”.
“Voi controllate attentamente i loro movimenti?”.
“E come no?!? I ragazzi non sono sempre gli stessi, anche se alcuni sono più assidui di altri. Li seguiamo da quando entrano, osserviamo il loro comportamento, ma niente da eccepire, tutto regolare. Scelgono a colpo sicuro non più di due articoli alla volta, pagano con danaro buono senza chiedere sacchetto e se ne vanno. Qualcuno di loro torna nel corso della stessa giornata, tutto qui. E sempre s’intrufolano tra le file e riescono a scavalcare tutti sollevando malumori”.
Il gestore rifletté e quindi ordinò:
“Qualcuno di voi li segua fin fuori dell’uscita, e poi ne riparliamo”.
Il sorvegliante gliene riparlò quello stesso giorno:
“Abbiamo visto giusto, fanno parte di una banda. Agli ingressi staziona, durante l’orario di vendita, un tizio male in arnese, sui quarant’anni, al quale i ragazzi consegnano gli acquisti. Lui li raccoglie in una grossa sporta e li trasferisce a persone, solitamente donne, in attesa anche a bordo di macchine quasi sempre posteggiate in terza fila. L’operazione si conclude con la consegna di danaro che l’uomo regola poi con i ragazzi. Quindi lui si riporta accanto agli ingressi mentre i ragazzi si disperdono restando però nei paraggi”.
“È chiaro” commentò il gestore “Hanno escogitato un sistema a profitto di chi vuole evitare di far la fila alle casse”.
“Proprio cosi. Ho udito io stesso l’uomo che mormorava a una signora che stava entrando: Signori, accattateve ‘a precedenza”.
“Domani conducetemi quell’uomo. Invitatelo senza far chiasso ma fate in maniera di portarmelo in ufficio” ingiunse il gestore.
Quando l’ebbe davanti scorse un ometto che lo salutava con un inchino deferente e un sorriso propiziatorio:
“Dottò, non faccio niente di male, non levo niente a nessuno. Io faccio ‘a campata”.
Le parole e l’atteggiamento richiamarono di colpo alla mente del gestore il ricordo di quanto gli era stato anticipato da un anziano amico quando aveva saputo della sua assegnazione a Napoli: “La città è stupenda e la sua popolazione non ha l’uguale, ti sorprenderà. Io ci ho vissuto alcuni anni della mia giovinezza, prima della guerra. Una volta, in via Roma, uno strillone volle per forza vendermi il giornale malgrado il mio infastidito rifiuto. Insisteva a dire pigliateve ‘u giornale, leggeteve ‘e nutizie. Poi m’accorsi che era il Corriere della settimana precedente, rincorsi lo strillone, glielo dissi e lui, con semplicità disarmante, mi rispose: signuri, anch’io aggio a campà”.
Il gestore si sforzò di conservare un’espressione severa verso l’omino che lo scrutava con ansietà.
“Posso sempre consegnarti alla polizia, poi vedremo se non fai niente di male. La tua banda di minorenni causa notevoli disturbi all’esercizio”.
Il volto dell’omino si era immediatamente trasformato in una maschera di dolore:
“‘A polizia?!? E che c’entra? Io fatico, nun arrobbo. Dottò, che vulite ‘a me?”.
“Ma tu, che ci guadagni?”.
“Dottò, ‘o magazzino è bello, tiene robba buona, i clienti so’ cuntienti. Ma non vonno aspettà, chisto è ‘o fatto. E io l’aiuto, che ce sta ‘e male?”.
“Si, ma che ci ricavi?”.
Prese tempo a rispondere, come se riflettesse, poi parlò ammiccando:
“Io piglio duemila lire a cliente, dottò, mille me le tengo e duciento vanno a ogni guaglione. È ‘na limosina, dottò, e i clienti risparmiano i denari dei sacchetti, se ne vanno ambresso ambresso e so’ cuntienti”.
Alternava il vernacolo a scandite pronunzie di lingua. Il gestore sorrise, suo malgrado. Chiese:
“E quanto riesci a guadagnare ogni giorno?”.
“Dottò, ‘a carta da diecimila la faccio, sempe meglio ‘e niente, tengo famiglia. Eppoi, cunsiderate, i guaglioni che lavorano cu’ me io li lievo a miezzo ‘a via e s’abbuscano pure ‘a mille lire. Accussì siamo tutti cuntienti, io, lloro e chilli che accattano”.
“Ma i clienti, ti pagano prima, ti anticipano il danaro?”.
L’omino arrischiò l’ironia:
“Eh no, dottò, che ve credite! Io lavoro sul mio capitale, so’ io che anticipo ai guaglioni”.
“E se il cliente non aspetta e se ne va prima della consegna?”.
“Nun può essere, dottò, ‘cca siamo gente a posto. Eppoi ‘a merce è merce, si può vendere sempe a qualcun altro, forse conviene pure”.
Il gestore aveva preso la sua decisione:
“Sta bene, non ti denunzio, ma questa storia deve finire, non devi aggravare i miei problemi. Facciamo così, tu la smetti e io ti pago diecimila lire al giorno per impedire che qualcun altro pensi di fare quello che hai fatto tu. Te ne stai davanti all’ingresso e stai attento a quello che fanno gli altri, ti va?”.
“Dottò, e i guaglioni?” quasi rantolò l’omino.
“Mandali a spasso!”.
“Ma quelli già stanno in miezzo ‘a via, ce vo’ nu poco ‘e cuscienza, dottò”.
“Va bene, raddoppio l’importo, ventimila, e te la sbrighi tu”.
“Dottò, voi siete nu mastro. State sicuro, da oggi i guaglioni staranno vicino a me, guarderanno insieme a me il magazzino. E voi vedrete che ce meritammo pure cchiù di ventimila lire”.
Quando l’uomo fu uscito tra mille inchini, non prima d’aver costretto il gestore a stringergli la mano, il sorvegliante che aveva assistito al colloquio commentò:
“Se questo è un pizzo speriamo che siano tutti così. Almeno c’é da divertirsi!”.