i racconti - Nemmonnemmai
quando non va
Alberto Morelli era giovane ma della vita aveva già imparato alcune regole fondamentali. Sapeva che nella lotta quotidiana occorre aver grinta, che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, che non bisogna abbattersi nella sventura né esaltarsi nella fortuna. L’ultima, di queste regole, lo aveva già aiutato molto a superare momenti difficili, quando ogni cosa che lo riguardava era sembrata rivo1targlisi contro.
La forza d’animo era stata la risorsa che l’aveva sostenuto nel cercare lavoro ostinatamente malgrado la disoccupazione facesse strage delle speranze giovanili.
Aveva tentato inutilmente anche un paio di concorsi nell’amministrazione dello Stato ed era infine riuscito a vincerne uno per l’ammissione in banca. Presto si era reso conto di essere entrato in un ambiente nel quale l’energia andava spesa sino all’ultima goccia tanto nel lavoro quanto nello spietato antagonismo interpersonale.
“In banca la carriera è bella quando la si fa” lo aveva ammonito qualcuno, e lui aveva ogni giorno la conferma che tutti cercavano di farla contendendola agli altri.
Aveva sfoderato la grinta per unirsi alla scalata della piramide ed intanto aveva sposato la ragazza che lo aveva atteso con amore e fiducia sin da quando erano entrambi poco più che adolescenti.
Destreggiandosi abilmente era riuscito a non farsi sovrastare dai suoi antagonisti e anzi, per merito sia proprio che delle circostanze, dopo alcuni anni era un dipendente tra i più apprezzati. Lavorava nella direzione generale di Palermo e godeva di autorevoli simpatie e innumerevoli invidie, requisiti di sicuro successo.
Un giorno il suo direttore, uomo di alta gerarchia e di elevato prestigio, lo chiamò per dirgli:
“Abbiamo un nuovo vicepresidente, che intende frequentare l’ufficio assiduamente e ha bisogno di un segretario. Scelgo lei. Si comporti bene e buon lavoro”.
Da un istante all’altro Alberto si trovò proiettato in un incarico che gli fece rimpiangere il lavoro già pesantissimo svolto in precedenza. Il vicepresidente era una dinamo sempre in moto, si muoveva attivamente nella politica e aveva più amici che capelli nella sua pur foltissima chioma. Trascorreva le giornate ricevendo uno dopo l’altro coloro che avevano qualcosa da chiedergli e affidava le loro istanze ad Alberto perché se ne occupasse. Per risparmiarsi di fare da tramite lo teneva al suo fianco per tutto il tempo delle udienze e soltanto a sera Alberto poteva riordinare i numerosi appunti per esaminare il da farsi.
Le invidie aumentavano: “Ti sei sistemato con il vicepresidente, chi ti ferma più?”.
Tra i due, in effetti, l’intesa si andava cementando e il rapporto si faceva sempre più stretto e cordiale. Quando arrivava in banca il vicepresidente spalancava il suo borsone rigonfio svuotandolo sul piano della scrivania e Alberto aveva il compito di individuare nel mezzo di quel terrificante disordine tutto quello che aveva parvenza di segnalazioni in favore di qualcosa o di qualcuno. Erano lettere, appunti concisi, frettolose annotazioni su pezzi di carta o anche su gualcite bustine di minerva.
Capitò anche che scartasse, facendo finta di non vederla , una confezione di profilattici.
Un giorno il vicepresidente gli disse:
“Ecco una domanda di sussidio economico presentatami da una poveretta. Si tratta della domestica dell’onorevole Villafrati, che lei sa mio buon amico. Veda di farle avere qualcosa. Quanto si dà in questi casi?”.
“Intorno alle dieci, quindicimila lire”.
“Così poco?!? Veda di fargliene avere almeno ventimila”.
Alberto, quella sera, riferì la cosa al suo direttore. Questi si scurì in volto esclamando: “La domestica dell’onorevole Villafrati? Non ne parliamo nemmeno! Se vuole un sussidio se lo faccia dare dal suo datore di lavoro che sta cercando di fare le scarpe al nostro presidente per succedergli”.
“E dell’istanza cosa faccio?”.
“La passi all’ufficio competente perché la metta agli atti”.
“E al vicepresidente cosa dico?”.
Il direttore si strinse nella spalle senza rispondere.
Alberto sperò di non sentir più parlare dell’istanza e invece dopo una settimana il vicepresidente gli chiese notizie:
“Com’é finita?”.
Decise di prendere tempo, dopotutto poteva ancora succedere che l’altro finisse per dimenticarsene. Rispose cautamente:
“Su istruzioni del direttore ho passato la domanda all’ufficio che si occupa di beneficenza...”.
“Sì, ma facciamo presto, quella poveretta ha bisogno”.
Il tempo passò senza che il vicepresidente dimenticasse. Sollecitò spesso, sempre più impaziente, e infine proruppe:
“Ogni volta che mi reco a casa Villafrati la domestica, nell’aprirmi la porta, si informa: dottore, arrivano ‘sti soldi? Mi sono stancato di fare questa figura. Lei dica al suo direttore che non voglio attendere più”.
L’indomani mattina, nel salutare il direttore, Alberto gli riferì il messaggio e l’altro, stizzito, ribadì vivacemente:
“Niente da fare, non autorizzerò mai questo sussidio!”.
Alberto ritenne d’esser chiaro:
“Direttore, mi perdoni, ma il vicepresidente non conosce il suo rifiuto. Credo che non spetti a me parlargliene”.
L’altro, rabbuiandosi ancor più, sibilò:
“Lei non gli dica niente, lo lasci senza risposta” e molto severamente gli fece cenno di non replicare.
Alberto sentì crescere la collera, aggravata dal contrasto con lo stato d’animo che quel giorno aveva dentro di sé. Era la vigilia di Natale e la sera egli sarebbe partito per raggiungere la moglie a Napoli, dove si trovava da un mese in casa dei genitori. Gli era mancata moltissimo e in quel momento, anticipando mentalmente il viaggio, avrebbe voluto unicamente pregustare la gioia di rivederla.
Era alle prese con la crescente irritazione quando l’usciere gli annunziò che il vicepresidente era arrivato e desiderava vederlo.
Appena lui ebbe varcato l’uscio l’altro, senza nemmeno rispondere al saluto, gli chiese:
“Allora, per quel sussidio?”.
Con prontezza che sperava convincente Alberto rispose:
“Ne ho parlato nuovamente poco fa al direttore”.
“E lui?”.
“Ma... penso che darà istruzioni”.
Il vicepresidente si alzò dalla poltrona, girò intorno alla scrivania e lo afferrò energicamente per un braccio.
“Venga con me, le farò vedere come si fa ad ottenere subito quello che si vuole”.
Sorrideva, ma aveva il piglio deciso e il risentimento negli occhi.
Lo trascinò, letteralmente, lungo il corridoio finché non giunsero davanti alla porta del direttore. Invano Alberto aveva tentato, quasi inconsapevolmente, di non farsi trainare. L’altro spalancò la porta e penetrò nella stanza senza mollare la stretta intorno al suo braccio.
Il direttore, alzato lo sguardo, spalancò la bocca a tutto sorriso e si levò in piedi esclamando:
“Oh, signor vicepresidente, quale onore...”.
Ma l’altro lo interruppe e con voce che finse di rendere severa per nascondere che lo era davvero lo apostrofò:
“Mi dica, lei pensa che un vicepresidente possa essere tanto imbecille da farsi prendere in giro?”.
Il direttore sbandò. Ostentando enorme stupore tentò di ribattere:
“Ma che dice? Non capisco”.
L’altro insistette:
“Mi risponda. Lei pensa che un vicepresidente possa essere un imbecille?”.
“Ma chi lo può pensare?” il direttore cercava invano di riguadagnare il sorriso.
“E allora, se nessuno lo pensa, come è ammissibile che una richiesta di sussidio da me caldeggiata non sia stata ancora accolta, dopo quasi un mese?”.
“Ma, di che si tratta?” volgeva lo sguardo smarrito dall’uno all’altro “Commendatore, é la prima volta che ne sento parlare”.
Detto questo puntò gli occhi su Alberto imitato dal vicepresidente e al pari dell’altro attese che il giovane dicesse qualcosa.
La scarica di adrenalina funzionò. Alberto cercò di parlare disinvoltamente mentre diceva:
“Direttore, è comprensibile, con tutto il suo lavoro. Lei ha dato ordine di passare l’istanza all’ufficio che probabilmente si riserva di sottoporgliela insieme ad altre da decidere”.
L’altro fu pronto ad esclamare: “Gli dica subito di passarmela in via di prelievo”.
Alberto fece un cenno di assenso col capo e uscì dalla stanza mentre gli altri due, già ignorandolo, avviavano una cordiale conversazione sul più e sul meno.
Trasferì l’ordine al funzionario che si occupava di sussidi e quello, disturbato nel suo lavoro, sbottò: “La dovete finire di fare e disfare. Non so nemmeno dove rintracciarla, quella domanda!”.
“Vedi di trovarla e vedi anche di far presto”.
“E allora, visto che a te il tempo non manca, cercala tu, io posso indicarti dove”.
L’altro gli era superiore in grado, anche se il loro rapporto era amichevole, ma Alberto non stette a pensarci su:
“Il compito è tuo e non ho alcuna intenzione di sottrartelo, così come non ho alcuna intenzione di farmi rompere i coglioni anche da te”. Gli girò le spalle e si allontanò lasciandolo al suo sbalordimento e aggiungendolo mentalmente al già folto novero dei suoi più fieri nemici.
A sera il direttore, dopo aver ricambiato gli auguri di buon Natale stringendogli la mano, gli disse con un sorriso agrodolce:
“Questa mattina, lei capisce, preso così alla sprovvista...”.
“Capisco. Nuovamente buon Natale, direttore, e arrivederci ad anno nuovo”.
Si recò alla stazione e quando il treno si mise in moto si sdraiò sul sedile approfittando d’esser solo nello scompartimento. Sfogliò distrattamente una rivista e quindi cercò di appisolarsi, col pensiero rivolto alla moglie e alla voglia che di lei avvertiva ormai come uno spasimo d’incontenibile ardore. Si svegliò a Messina, ai suoni laceranti e alle grida che accompagnavano il trasferimento del convoglio sul ferry-boat. Era notte fonda, faceva freddo e, salvo che il personale di treno, non scorse alcun altro viaggiatore. Era vicina la mezzanotte quando il traghetto s’infilò nell’invaso di Villa San Giovanni e s’arrestò dolcemente.
Dopo meno di trenta minuti il treno, ricomposto e completato con l’aggancio di una vettura proveniente da Reggio Calabria, era pronto a riprendere il viaggio verso il nord. Ad un finestrino della vettura aggiunta era affacciata, malgrado l’aria pungente, una figura femminile in conversazione con un paio di ferrovieri che balzarono sui predellini non appena il capostazione fischiò. La donna ristette affacciata ancora per qualche istante e quindi si ritirò all’interno dello scompartimento chiudendo il finestrino.
Prima ancora di Scilla Alberto aveva percorso, tra gli scossoni, tutto il convoglio, sei vetture completamente deserte. Soltanto in quella di coda scorse la donna, che alzò gli occhi a guardarlo con curiosità, e i due ferrovieri che conversavano stancamente nell’ultimo scompartimento.
Tornando sui suoi passi lungo il corridoio osservò meglio la viaggiatrice. Non più giovanissima era però molto attraente, generosa di forme, una carnagione splendente e una folta chioma color rame. Elegante senza essere sofisticata, sedeva con le gambe accavallate, belle a vedersi, reggendo fra le mani un periodico illustrato.
Sollevò nuovamente lo sguardo su di lui e ad Alberto sembrò, proprio nell’istante in cui stava per passare oltre, che atteggiasse le labbra a vago sorriso.
S’arrestò, si riportò sulla soglia dello scompartimento e disse:
“È la notte di Natale e su questo treno siamo i due unici viaggiatori a parte i ferrovieri. Che ne direbbe di farci compagnia?”.
Lei sorrise apertamente, stavolta, rispondendo:
“Sarebbe un peccato non farlo, si accomodi”.
Alberto raggiunse il proprio scompartimento, prelévò il bagaglio e fece il cammino a ritroso. Uno dei ferrovieri, in fondo alla vettura, fece capolino, lo osservò e poi si ritrasse.
Sedette di fronte alla donna e dopo cinquanta chilometri di incessante conversazione sapevano, l’uno dell’altra, quanto era necessario per conoscersi. Lei era di Forlì, il marito vendeva biancheria per signora girando le piazze con l’autofurgone e lei talvolta, non avendo figli ai quali badare, lo accompagnava. Ora lui era rimasto a Reggio Calabria e lei invece aveva preferito tornare a casa per trascorrere le feste con i propri genitori. Aveva una voce calda, il comportamento spigliato e sprigionava femminilità da tutti i pori.
Alberto le aveva parlato del suo impiego in banca, delle sue giornate piene di lavoro in attesa di raggiungere la moglie che non vedeva da un mese, della fortuna di aver trovato una così gradevole compagna di viaggio “autentica strenna di Natale da parte della provvidenza”. Lei rise e lo guardò senza nascondere la simpatia.
Dopo altri dieci chilometri erano seduti accanto e poco più avanti, immersi nella fioca luce azzurrata del lume notturno, convennero di incrociare le tende sulla porta chiusa e si abbandonarono al petting più sfrenato. Alberto la carezzava e la stimolava frugando fra gli indumenti, eccitato dalle sue rotondità e dall’epidermide serica, lei lo baciava perdutamente sfiorandogli il sesso gonfio sotto il pantalone.
Nessuno dei due voleva farsi fretta e persero la cognizione del tempo.
Si staccarono quando il treno, dopo aver gradualmente rallentato senza che essi se ne rendessero conto, si fermò sussultando e stridendo. Da fuori una voce annunciò:
Paola, stazione di Paola. Poi uno sportello sbatté e il convoglio si rimise in movimento. Udendo passi nel corridoio si ricomposero presi dalla stessa intuizione e Alberto si spostò sul sedile di fronte. Dopo un istante il ferroviere fece scorrere la porta e, infilato il capo tra le tende, li osservò sornione prima di girare lo sguardo all’intorno fingendo d’ispezionare lo scompartimento.
Convennero d’essere prudenti. Alberto pensava: “Non conosciamo quello che passa per la testa di quell’uomo. Può essere comprensivo, dopotutto è la notte di Natale, come può essere animato, che so, dall’invidia. Meglio non metterlo alla prova”.
La verità, però, era un’altra e la capì poco a poco. Più s’infiammava, ripreso dal vortice dei brancicamenti con la donna, e più avvertiva il rimorso di quel che stava facendo.
Diamine, era la notte di Natale, stava viaggiando per raggiungere la moglie che non vedeva da un mese e tentava invece di scaricare la propria tensione erotica con una sconosciuta!
Capì che la donna desiderava appagarlo e lui iniziò una battaglia con se stesso, alternando infinite volte l’impellenza di concludere alla decisione di resistere.
Lei prima fece finta di credergli - “Dobbiamo essere prudenti, il ferroviere è certamente in agguato e non dobbiamo sciupare tutto con qualcosa di squallido” – poi sembrò rassegnarsi a continuare nello sterile petting senza tuttavia giungere nuovamente al calor bianco. Tentò anche di coglierlo di sorpresa ridendo ai suoi sforzi per sottrarsi e quando il treno sfrecciò davanti alla stazione di Eboli essi erano più impegnati a superarsi in quella frizzante schermaglia che a godere i baci che continuavano a scambiarsi.
Poi lei sembrò prendere una decisione:
“Non è che io ci tenga molto ad arrivare a Forlì in giornata. Se tu vuoi, possiamo scendere a Salerno e andiamo in albergo, trascorriamo insieme la mattinata e poi ognuno riprende la propria strada”.
Alberto fu tentato. Ma l’idea così lusinghiera di godere pienamente di quella donna fra morbide coltri non si conciliava assolutamente con quella di riabbracciare la moglie dopo la lunga separazione. Questa volta fu più esplicito con se stesso: “Nel giorno di Natale mi carico la coscienza di un tradimento imperdonabile e mi presento a mia moglie fiaccato nello spirito e nel corpo!”.
La donna accolse l’imbarazzato rifiuto senza apparente risentimento. Sfiorandogli il volto con una carezza promise:
“Un giorno o l’altro capiterò certo a Palermo. Ti cercherò se lo gradirai”. Lui se ne dichiarò entusiasta.
Albeggiava e il treno stava entrando nella stazione di Napoli. Mentre Alberto tirava giù dalla reticella la propria valigia vide che ella sorrideva fissandolo con una punta di ironia. Le chiese:
“Cos’è che ti diverte?”.
Lei fece gorgogliare la risata in fondo alla gola prima di rispondere: “L’idea che arrivi a casa e trovi tua moglie indisposta. Dopo tutti i tuoi sforzi di questa notte per preservarti!”. Alberto rise con lei.
Giunto a casa dei suoceri si spogliò in fretta e si coricò accanto alla moglie che, destata dal sonno, ricambiò amorosamente il suo abbraccio. La toccò e rimase di sasso: aveva il suo flusso mensile!
La baciò sulla fronte e lasciandosi andare supino al suo fianco emise un profondo sospiro che a lei sembrò doloroso. Gli chiese:
“Che c’é?”.
“Non lo capisci?”.
Lei lo avviluppò fra le braccia per confortarlo teneramente: “Il mio bambino, così impaziente! Ma ora siamo insieme, abbiamo tutto il tempo! Via, non te la prendere, è Natale”. Poiché lui taceva aggiunse:
“E poi, in qualche modo...”.
La voce di Alberto suonò aspra “No l’aspetterò!” e, subito dopo, più dolce “È che sto attraversando un brutto periodo, ogni cosa sembra andarmi storta, anche questa. Debbo soltanto aspettare, quando non va non va, inutile affliggersi”.
La moglie, ancora assonnata, gli si strinse ancor di più rinunziando a capire. Lui invece andava ripetendosi che, si, doveva attendere che passasse, bel tempo e brutto tempo non durano tutto il tempo! La vita, anche quando sembra che dia o che tolga, sa quel che fa.