i racconti - Nemmonnemmai
il dubbio
Il dubbio mi assalì la prima volta quando il capo dell’ufficio nel quale lavoravo mi rampognò severamente: “Lei non è pagato per pensare!”.
Fu mentre tentavo di spiegargli i motivi che mi avevano persuaso ad eseguire un certo lavoro modificando la procedura da lui suggerita. Con crescente insofferenza egli continuava a rifiutare di conoscere le mie ragioni e io insistei: “Ho pensato che...”.
Mi freddò: “Lei non è pagato per pensare”. Era ringhioso e mi sibilò le parole in faccia con durezza, convinto di quel che diceva e senza tema di venir meno alla serietà della predica. A mia volta, vittima ahimè di un’immediata ricaduta, pensai di ribattere che per Anatole France il pensiero è la nobiltà dell’uomo. Ma tacqui vilmente per evitargli di uscire dai gangheri.
Non avevo timore di lui, ma molto di me stesso. A meno di trent’anni è ancora giocoforza misurarsi più con se stessi che con gli altri, guai a lasciarsi andare. E lui, il capufficio, era bravissimo nel mettermi in conflitto con l’uomo che dentro di me si ostinava a rifiutare ogni paziente insegnamento.
Forse tacqui anche perché non volevo adularlo, lui che del pensiero poteva vantare tutti i quarti di nobiltà. Non cessava mai di pensare, occupava la mente nella ricerca infaticabile di mille espedienti per controllare il lavoro e per torturare il personale allo scopo di migliorarne la produttività. Aveva gli occhi cerulei e, assorto nei pensieri, li fissava nel vuoto con aria allucinata. Quando noi dell’ufficio scorgevamo quello sguardo cercavamo di rimpicciolirci dietro i nostri tavoli chiedendoci con angoscia: “Cosa ne verrà?”.
Per liberarci dalla sua pressione attendevamo l’estate e i turni di ferie. Come tutti i funzionari egli aveva diritto a trenta giorni di riposo che, con autoritaria prelazione, faceva coincidere col mese di agosto. Già dal primo luglio però, con una puntualità mentale più cogente dello stesso calendario, anticipava il godimento delle proprie vacanze vagando col pensiero fra le montagne svizzere, meta dei suoi immutabili programmi, come se già fosse sui luoghi. A settembre, rientrato in servizio, trascorreva tutto il tempo con aria assente rivivendo palesemente ogni momento della libertà lasciata lassù. Qualcuno di noi, ancorché lieto di quella trasognata latitanza, aveva suggerito: “Dovremmo mettergli al collo un cartello con scritto: torno subito”. Lui invece si ridestava puntualmente soltanto in ottobre, smetteva di fissare il vuoto con gli occhi cerulei e riprendeva le torture su di noi, aggravate dalla nostra invidia feroce per i tre mesi di ferie che di fatto, in barba al regolamento, riusciva in quel modo a concedersi.
I miei rapporti con lui seguivano una periodicità quindicinale, simile a quella dell’avvicendamento nei casini. Per un paio di settimane andavamo solitamente d’accordo, poi accadeva qualcosa che ci rendeva reciprocamente ostili nel periodo successivo. Durante la tregua riuscivamo quasi ad essere amici, tanto che io venivo gratificato delle sue confidenze. Da instancabile pensatore egli riusciva, a suo dire, a possedere con la fantasia tutte le donne che durante il giorno eccitavano i suoi appetiti. “Stamattina, venendo in ufficio, me ne sono fatte cinque!” mi sussurrava in tono complice, e io lo assecondavo: “Con gli occhi, eh!”. Emetteva un sospiro e confermava: “Con gli occhi, sì, ma è stato proprio bello!”.
Pensava, pensava, sempre, senza sosta. Una domenica mattina - sì, a quel tempo taluni lavoravano spesso anche la domenica, poiché i sindacati non avevano ancora inforcato la tigre - lo trovai alle prese con alcune centinaia di foglietti bianchi su ciascuno dei quali aveva pazientemente segnato una diversa lettera dell’alfabeto.
Li stava mescolando, laboriosamente, come il giocatore fa con il mazzo di carte.
Quando ebbe finito guardò l’orologio e cominciò a riordinarli nella progressione alfabetica. Mi spiegò: “La signorina Ciriminna impiega troppo tempo a inserire la corrispondenza esaurita nelle pratiche d’archivio e con questa simulazione voglio rendermi conto dei tempi tecnici necessari. Poi le farò precise contestazioni”.
Verso la Ciriminna nutriva palesemente un sentimento d’amore - perché era una ragazza di notevole venustà - e di odio perché ne veniva snobbato. Spesso coglievo il suo sguardo ceruleo perso su di lei e pensavo: “Se la sta facendo”.
S’era convinto che la ragazza piacesse molto anche a me - ed era vero - e che ella in qualche modo mi ricambiasse, il che era purtroppo falso. Un giorno mi accusò aspramente: “Lei favorisce la Ciriminna nel lavoro di dattilografia riservandole le lettere più brevi e assegnando quelle più lunghe alle altre impiegate”. Gli spiegai che le lettere, schematizzate, erano tutte uguali tranne che negli indirizzi e che, giudicandole a vista, egli non aveva considerato che nella battitura la Ciriminna usava un solo spazio contro i due utilizzati dalle altre. Scosse la testa stizzito decidendo all’istante di iniziare la quindicina nera del nostro rapporto.
La crisi più grave l’avemmo dopo che una sera, prima di lasciare l’ufficio, m’ingiunse di risolvere tre pratiche urgenti con altrettante telefonate da fare al primo inizio del giorno successivo. Al mattino fui in ufficio prima di lui, che arrivò quando già stavo effettuando la seconda telefonata. Sistematosi dietro il suo tavolo mi chiamò ripetutamente a gran voce malgrado gli facessi cenno che stavo ascoltando l’altro capo della linea, per ricordarmi con impazienza, fra il soffocato sogghigno generale, l’ordine della sera precedente. Tappandomi l’altro orecchio per non sentirlo vociare terminai alla meglio la comunicazione e, a lui che intanto s’era alzato per marciare furioso su di me, dissi asciutto: “Se lei desidera che io esegua i suoi ordini deve evitare di disturbarmi mentre lo sto facendo”. Stavolta la cosa finì in direzione e non fu facile, per entrambi e per la stessa direzione, venirne fuori onorevolmente.
“Lei non è pagato per pensare!”. Lui sì, evidentemente lo era, io no. Fu allora che mi venne il dubbio. Forse non era una questione di gerarchia, forse si trattava di altro. Forse era vero che pensando correvo il rischio di sbagliare. Mi resi conto che anche fra me e me non era infrequente che mi giustificassi: “Avevo pensato che...” e che ciò voleva dire che sbagliavo troppo spesso.
Naturalmente non ho cessato di pensare e quindi ho continuato a sbagliare. Come tutti, o forse anche un po’ di più. Ma, che volete? Ho finito col rassegnarmi quando ho capito una cosa molto importante, che è impossibile pensare alla maniera degli altri e che quindi si può essere completamente d’accordo soltanto con se stessi. Voi lo sapevate che il pensiero è come le impronte digitali, diverso per ciascuno di noi? Al pari delle impronte può somigliarsi ma niente altro. Ogni individuo si distingue sia per le creste dei polpastrelli che per i vorticilli del pensiero. Ecco perché, se proprio non sapete rinunziare ad avere ragione, dovete darvela da soli. O chiedere a chi vi ama di fingere che l’abbiate. Finché vi ama.
Se non l’avete capito, amare significa sopportare le ragioni degli altri. Voi ne siete capaci? Interrogatevi, potreste scoprire la chiave del vostro futuro.