i racconti - Nemmonnemmai
il Potere
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introduzione, prefazione, causa d'onore, in piazza del Santo, quando non va, il Maestro, il chewingum, Giorgia, il treno, Ares contro Eros, la fila, nemmonnemmai, il dubbio.
La riunione del consiglio di amministrazione era stata estenuante. Iniziata al mattino si era protratta, con una sola brevissima interruzione per uno spuntino in piedi, fino a tarda sera impegnando i presenti in dispute animatissime spesso vicine alla rissa verbale, mentre la temperatura della sala, a causa del guasto all’impianto di condizionamento, era andata salendo inesorabilmente. Dalle finestre, aperte dai solerti uscieri anche per ricambiare l’aria appesantita dai fumatori, entrava l’afa della torrida giornata estiva.
Ora, mentre i consiglieri sfollavano chi frettolosamente e chi invece cimentandosi ancora in accanite discussioni, il presidente emise un profondo sospiro liberatorio e si rivolse ai tre uomini che l’attorniavano:
“Grazie a Dio è finita! Vi assicuro che una riunione altrettanto defatigante non mi era mai capitata. Anche nella nostra banca la lottizzazione del Consiglio ha introdotto le perverse logiche parlamentari. E meno male che, tra il lavoro e il caldo, l’appetito non si è fatto sentire, altrimenti il tramezzino consumato nel rapido intervallo sarebbe servito a ben poco”.
Il direttore generale sorrise: “Non le nascondo che io, invece, ora ho proprio fame. Sarà forse la reazione!”.
“Bene” esclamò il presidente “Allora, se accettate di farmi compagnia, vi offro la cena. Vi sta bene tra mezzora, al ristorante qui sotto?”.
Gli altri due uomini - il segretario del consiglio e il capo del collegio sindacale - furono subito d’accordo. Il gruppetto si sciolse e ciascuno si affrettò a raggiungere il proprio bagno per rinfrescarsi e mettersi in ordine.
Più tardi, quando la cena volgeva già al termine, il presidente volle ringraziarli:
“Vi sono grato di aver evitato qualsiasi cenno ai lavori di oggi, ne siamo saturi. È stata una giornata eccezionale per impegno di tempo, per disagio fisico e per l’estrema importanza dei problemi trattati. La ricorderemo, siamo riusciti a far prendere decisioni difficili e di enorme portata. Ma ora che abbiamo pensato allo stomaco cerchiamo di rilassarci per trascorrere una notte tranquilla”.
Il direttore generale chiamò il cameriere e dopo avergli ordinato due bottiglie di Pommery disse agli altri:
“Sono pienamente d’accordo con il presidente e lo champagne servirà sia a festeggiare i risultati di oggi che a conciliarci il riposo”.
“Bravo, ma due bottiglie sono troppe, forse” ammonì il presidente “Non dimentichiamo il barolo già bevuto”.
Lo dimenticarono, invece, sentendosi sempre più soddisfatti e via via più euforici.
Per facilitare l’allentamento della tensione accumulata nel giorno il presidente, abile intrattenitore, animò la conversazione ravvivandola briosamente non appena tendeva a languire. Era uomo che dormiva poco, non più di tre o quattro ore a notte, solito a ritardare il più possibile il momento di coricarsi. Quando s’accorse che anche per effetto del vino gli altri stavano cedendo al torpore li riscosse con una domanda che li sorprese:
“Lo direste che sono un sentimentale?”.
Il direttore generale, incerto se il tono fosse serio o faceto, rispose tuttavia prontamente:
“Non lo abbiamo mai escluso, presidente, la gentilezza del suo animo è trasparente”.
Lui annuì compiaciuto replicando:
“Sì, ma forse non immaginate quanti imbarazzi ciò mi comporti. Nel nostro mestiere il sentimento è una debolezza. Oggi, durante la riunione, per qualche momento ho riflettuto su questo”.
Gli altri tacevano e lui proseguì:
“È stato quando qualcuno ha insistito sul discorso della strategia aziendale, che mi ha ricordato un lontano episodio del quale non ho da vantarmi”.
“È difficile pensare questo, di lei”.
“Eppure... Chi non ha qualcosa da rimproverarsi? Forse tutti abbiamo più rimorsi che meriti. lo non mi rallegro certamente al ricordo dei torti commessi. Uno, in particolare, mi molesta anche perché forse avrei potuto evitarlo”.
Fece una pausa d’attesa e il direttore generale accettò di invogliarlo:
“Ce ne vuol parlare?”.
“Certo, state a sentire. L’altra banca che ho presieduto prima di venire fra voi non aveva le dimensioni di questa ma era tormentata dagli stessi problemi. Superando mille difficoltà lavorava, come ancor oggi, con grande efficienza grazie anche alle qualità di una classe dirigente di prim’ordine, simile a quella di qui. Ovviamente la selezione per gli avanzamenti di carriera era estremamente tribolata anche se, proprio come qui, non mancavano gli uomini che si facevano preferire. Un giorno, per ragioni che ognuno di voi può intuire, l’amministrazione ha dovuto preordinare la carriera di vertice per un dirigente che forse sovrastava gli altri tranne uno, che però lo precedeva nel grado. È stata quindi realizzata una strategia che nel giro di qualche anno, negando al secondo le previste promozioni, ha consentito all’altro di scavalcarlo e di rendere quindi legittima la sua nomina alla posizione designata”.
“Ma questo accade normalmente, nelle nostre aziende, l’interesse generale prevale sempre su quello particolare” osservò il capo dei sindaci.
“Sì, ma non vi ho ancora detto il seguito”.
“Cioè?”.
“Quando il dirigente destinato a lasciare il passo si vide negare la promozione per la seconda volta chiese di parlarmi. Mi disse che aveva considerato casuale la prima esclusione, nella quale era stato accomunato ad altri nella sua stessa posizione, ma che riteneva inspiegabilmente intenzionale la seconda che aveva riguardato lui solo. Chiese quindi di conoscere quali demeriti l’avessero provocata”.
Osservò i compagni di tavola prima di proseguire:
“Cosa potevo rispondergli? Gli dissi che non c’era nulla di personale, che egli godeva della massima stima, che talvolta le strategie aziendali possono determinare situazioni scabrose”.
“E lui?”.
“Lui mi chiese, con molta compostezza, se la strategia della nostra azienda potesse consentirsi di ignorare le aspettative di carriera di un elemento che, oltre alla maggiore anzianità direttiva, vantava l’encomio del consiglio di amministrazione per le prestazioni assicurate in incarichi particolari”.
“Lei cosa gli ha risposto?”.
“Ecco, a quel punto, dovevo scegliere e ho preferito il comportamento più facile. Mi sono mostrato comprensivo e, per farla breve, ho usato molta cordialità per convincerlo che non sarebbe rimasto deluso nel futuro purché avesse conservato l’entusiasmo. Mi venne facile anche perché mi sentivo sincero”.
“E lui si lasciò convincere?”.
“Si, o fece finta. Dopo qualche giorno mi fece pervenire una letterina di ringraziamento nella quale concludeva: lei, presidente, mi ha gratificato di un momento di intensa emozione, quando con accenti di grande sensibilità mi ha fatto comprendere che, se anche l’azienda mi ha isolato per un imprescindibile disegno, ora non sono più solo”.
“Il furbo ha cercato di incastrarlo!” esclamò il direttore generale “Ha tentato di mettersi in mano una briscola”.
“Già, malgrado le espressioni apparissero genuine anch’io ebbi questo fastidioso sospetto, sul quale mi sono adagiato volentieri per giustificare a me stesso la decisione di evitarlo accuratamente, da quel momento, e di trascurare il suo problema per non crearmi imbarazzi”.
“La promozione non l’ha più avuta?”.
“L’ha avuta, come la successiva che ancora gli restava, ma molto più tardi, quasi alla fine della carriera, dopo aver subito un’inesorabile emarginazione e quando non poteva più fare ombra all’altro ormai già al posto assegnatogli”.
“Beh, presidente, anche a prescindere dall’indelicata astuzia dell’interessato lei non poteva comportarsi diversamente, lei doveva pensare all’azienda”.
“Come presidente forse si, anche se ora non sono più molto sicuro che la migliore strategia aziendale fosse quella prescelta. Come uomo ho molto da rimproverarmi perché non c’è dubbio che comunque, in quell’occasione, mi sono comportato cinicamente”.
“Le responsabilità comportano spesso il cinismo”.
“È cosi, sempre che non se ne faccia un comodo alibi alla propria indifferenza. Altre volte, naturalmente, ho agito superando gli scrupoli, sempre nell’interesse della banca, ma il sicuro risentimento di quell’uomo ancora mi pesa”. Dopo un breve silenzio aggiunse: “Non è che me ne sia fatto una croce, sia chiaro, ma il ricordo mi infastidisce”.
Concluse beffardo: “Il bello è che nel tempo, a causa di questo fastidio, il risentimento si è fatto reciproco. Quel poveretto è nato decisamente senza fortuna!”.
Gli altri credendo che su quella battuta volesse chiudere la serata fecero la mossa di alzarsi ma lui li fermò con un gesto della mano apostrofando invece il direttore generale:
“E lei? Non ha qualche ricordo sgradevole del quale farebbe volentieri a meno?”.
L’interpellato fu tentato di negare ma capi che non sarebbe stato credibile né cortese. Il presidente non era nuovo a estrose dissertazioni nelle quali l’uditorio compiacente finiva inevitabilmente coinvolto, e quella sera probabilmente stava anche obbedendo a un bisogno di sfogo. Scelse quindi di annuire con aria mesta e l’altro lo incitò:
“E allora coraggio, ce ne parli. Questa è una buona occasione per scaricarsi come ho fatto io”.
“Mi lasci pensare”. Si concentrò per qualche momento e poi abbozzò un sorriso facendo spallucce: “Ma sì, c’é un episodio del quale non sono fiero”. Raccolse le idee e cominciò:
“Tutte le mie giornate di lavoro, se viste con l’ottica dei suoi sentimenti, sono ispirate al cinismo, guai se mi abbandonasse, e quindi non ho da pentirmene. C’è invece qualcosa, un comportamento che riguarda me solo, che preferirei aver evitato. È accaduto moltissimi anni fa, quando ero appena passato fra i dirigenti”.
“Di cosa si tratta?” lo stimolò il presidente.
“A quel tempo mi facevo confezionare gli abiti da un grande sarto, uno che vestiva tutti gli uomini di successo. Egli se ne vantava ed era sempre al corrente di quanto accadeva negli ambienti che contano. Trasferiva le notizie da un cliente all’altro, era come se il suo laboratorio fosse un salotto di VIP. Anche con me era molto confidenziale malgrado il mio modesto livello di funzionario di banca. Si faceva pagare profumatamente ma far parte della sua clientela era una sicura distinzione. Il giorno stesso che ebbi la promozione a dirigente pensai di ampliare il mio guardaroba e appena fui da lui lo salutai dicendogli: mi faccia gli auguri, sono stato promosso direttore”.
Il segretario commentò:
“Mi sembra giusto che glielo facesse sapere”.
“Dice? In quel momento sembrò anche a me, ma prima che la giornata finisse qualcuno mi telefonò a casa per congratularsi dicendo: l’ho saputo dal sarto, particolarmente soddisfatto d’essere stato il primo a felicitarsi”.
“Il tam-tam aveva funzionato!” osservò il presidente “Non era questo che lei aveva voluto?”.
“Non lo nego. Contrariamente a quanto avevo immaginato, però, quella telefonata anziché lusingarmi mi fece sentire meschino. Questo è tutto”.
“Chi non ha mai ceduto, almeno una volta, alla vanità?” disse il presidente in tono indulgente. Poi si rivolse al segretario:
“E lei? Cosa vuole raccontarci?”.
L’altro, se pure aveva sperato di farla franca, aveva intanto scelto, però, tra i ricordi.
“Presidente, gli errori che meno ci perdoniamo sono quelli riduttivi dell’opinione che abbiamo di noi stessi, quelli che col tempo ci appaiono non degni di noi. Io ne ho commesso uno molto grossolano che non ha avuto conseguenze ma che ancora mi fa arrossire. Ero molto giovane, da poco in banca e frequentavo ancora l’università. Dovevo dare l’esame di diritto romano e non ne sapevo abbastanza, con quel testo quasi tutto scritto in latino. E in ufficio cosa scopro, un giorno? Che proprio il docente di diritto romano aveva inoltrato alla banca una richiesta di contributo economico a favore delle iniziative culturali della facoltà e la banca l’aveva accolta. Mi capitò tra le mani, pronta per la spedizione, la lettera con la quale il direttore generale del tempo si compiaceva di darne notizia al richiedente. lo la misi in tasca e mi presentai all’esame. Prima che il professore iniziasse a parlare mi qualificai e, porgendogli la lettera, mi dissi particolarmente lieto di dargli una notizia che gli avrebbe fatto piacere”.
“Birbante!” esclamò il presidente con aria severa, autentica o scherzosa che fosse.
“Molto peggio che birbante, presidente, presto me ne resi conto, perché il professore praticamente mi scacciò dall’aula e riferì ogni cosa al direttore generale”.
“Come finì?”.
“Bene, dopo tutto. Il direttore generale mi perdonò, mi conosceva ed ero entrato in banca per merito suo. E l’esame lo superai alla sessione successiva. Però, che lezione!”.
Il presidente si mise più comodo sulla sedia e fece un cenno al capo del collegio sindacale:
“Tocca a lei, l’ascoltiamo”.
L’altro, che era il più anziano dei quattro, fece una smorfia:
“Se avessi buona memoria avrei anche l’imbarazzo della scelta perché lei ha ragione, presidente, di errori se ne commettono tanti, a qualsiasi età, e io su di voi ho un disgraziato vantaggio”.
Risero e il presidente lo esortò:
“Allora?”.
“Allora, vediamo un po’. Ecco, risaliamo ai tempi del mio servizio alla Cassa di Risparmio, quando ne ero vice direttore generale. Le mie tre figlie si sono sposate a breve distanza l’una dall’altra e ogni volta io ho inviato la partecipazione di nozze a tutto il personale, circa seicento persone. Ero benvoluto e ritenni di non escludere nessuno, salvo a limitare gli inviti alla cerimonia. Tuttavia furono pochi coloro che rinunziarono a testimoniarmi la loro simpatia con un dono agli sposi e la cosa, naturalmente, finì col cagionarmi notevole disagio. Ecco, forse era preferibile che rischiando un’impopolarità di altro genere limitassi anche le partecipazioni”.
Il presidente meditò osservandoli con aria divertita:
“Sapete cosa viene fuori dalle nostre confidenze? La conferma che siamo uomini di successo. Ognuno di noi ha certamente almeno una delle qualità necessarie al potere, senza escludere le altre. lo mi sono riconosciuto il cinismo, il direttore generale la vanità, il segretario l’opportunismo e lei, signor sindaco, anche l’ipocrisia. No, non deve protestare, i suoi pentimenti non sono sinceri, lei ha sposato tre figlie, non una sola, avendo tutto il tempo di evitare le recidive”. Zittì scherzosamente l’altro che tentava di replicare e concluse:
“Inoltre, accettando di socchiudere l’armadio di certi ricordi, abbiamo appena mostrato di avere coraggio, requisito non secondario nel nostro mestiere. Dunque è sicuro, ognuno di noi è nato per il potere. Ora possiamo essere certi che la nostra banca è in buone mani”.
Si alzò accentuando il sorriso sornione. Ciascuno degli altri aveva anche confermato di sapere perfettamente, al pari di lui, che il più vero segreto del potere è nella convinzione di credersi uomini giusti al posto giusto.