i racconti - Nemmonnemmai
il Maestro
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introduzione, prefazione, causa d'onore, in piazza del Santo, quando non va, il chewingum, Giorgia, il treno, Ares contro Eros, il Potere, la fila, nemmonnemmai, il dubbio.
Tranne che per me, probabilmente, Goliardo Violini non fu un personaggio memorabile, la sua figura ha rilevanza solo nel mio ricordo, per il rapporto che corse tra noi.
È vero però che ogni uomo, per insignificante che sia, può contare enormemente nella vita di un altro uomo.
Credo tuttavia di non essere stato, a quel tempo, l’unico degli allievi a idealizzare Violini. Quando giunse tra noi poteva avere non più di venticinque anni, era alto, magro, di forte ossatura; il suo volto asimmetrico appariva rapace per via di un naso tra i più notevoli che si possano immaginare. Gli occhi celesti avevano un’espressione buona, gli davano aria di fanciullezza spensierata. Sapeva essere severo ed allora il suo naso incuteva soggezione.
Era uno sportivo, lo si capiva durante le ore di palestra. Un giorno, dopo aver partecipato ad una partita di pallone, ci comparve davanti con il naso incerottato, quel naso che era di lui, irrimediabilmente, la parte più esposta. Era buffo e commovente, o tale almeno sembrò a noi in quel momento.
I miei primi contatti con lui non furono felici. Ero timido, allora, e non sapevo rompere il ghiaccio, come invece gli altri, con il nuovo insegnante. Non sapevo essere grazioso da bambino e forse non lo sono ora, ma all’età di oggi non importa più. Dovetti fargli, agli inizi, una brutta impressione. Oltre la sfera dell’insegnamento lo ignoravo ed egli mi trascurava. Non rivolgeva a me alcun segno di quella cordiale indulgenza che palesava agli altri allievi. lo non sapevo come familiarizzare, mancavo della dote più spontanea nell’infanzia, non l’ebbi allora e non l’ho acquistata mai più. Egli sembrò avere, sulle prime, tutt’altra propensione che d’occuparsi della mia persona. Finimmo, in pochi giorni, per divenire tacitamente ostili. Ci guardavamo e ci trasmettevamo antipatia. Il suo naso mi dava fastidio.
Un giorno lo udii esprimere finalmente, con perentorietà, un giudizio sul mio conto.
Ero timido ma detestavo le prepotenze; un compagno volle farmi un sopruso, non ricordo quale, e io furiosamente minacciai di strangolarlo. In realtà a quell’epoca ero piuttosto gracile e le mie difese non andavano oltre le parole. Ma avevo coraggio, sufficiente più di una volta a rischiare di picchiarmi con qualcuno. In quella occasione il mio antagonista mi avrebbe schiacciato con il solo pollice, se avesse voluto. Ma i piccoli hanno già le loro vanità. Eravamo allineati con tutta la classe lungo il corridoio della scuola, in attesa di non so cosa. L’altro mi risparmiò, preferendo rivolgersi all’insegnante con boria infantile: “Signor maestro, lo sente? Ha detto che vuole strangolarmi!”. Il maestro mi guardò di sfuggita, come fossi un’ inezia: “Ma che vuol fare, quello scarapino!”. Non ho mai saputo cosa significasse quella parola, se non che esprimeva un umiliante dileggio.
Non fu né professionale né obiettivo il maestro Violini, in quella circostanza, ma io gli ero antipatico e lui non seppe vincere la tentazione di manifestarmelo. Lo odiai. Fermamente. Disprezzai il suo naso con tutta la mia forza. lo ero “lo scarapino”.
Poi, non so come, durante l’anno scolastico nacque tra noi lentamente ma inarrestabilmente un mutuo sentimento di stima, quella che si matura con la spontaneità degli eventi naturali.
Non so dire come iniziò quella nuova reciprocità che inverti il carattere del rapporto, né come per gradi ebbe a svilupparsi. Ricordo che durante le sue spiegazioni lo sguardo di Violini correva sempre più di frequente a me che me ne beavo. E quanta vergogna mi afflisse quella volta che, perdutamente immerso nei suoi occhi, mi feci cogliere disattento alle sue parole! Illustrandoci il processo respiratorio egli aveva concluso “Dunque l’uomo immette nei polmoni l’ossigeno contenuto nell’aria che aspira. L’ossigeno ha la funzione di purificare l’organismo. Ognuno dovrebbe aspirare aria attraverso il naso ed espirarla attraverso la bocca, poiché la peluria delle narici evita l’ingresso nelle vie respiratorie del pulviscolo eterogeneo che è nell’aria. In questa maniera si inspira aria pura e si espira... com’ è l’aria che si espira?”. Mi parve, come al solito, che la domanda fosse rivolta a me e soltanto a me. Non potevo deluderlo, elaborai un istantaneo ragionamento su quel poco che ero riuscito a intendere: se anziché con la bocca inspiriamo col naso immettiamo aria pura che all’atto dell’emissione sarà: “Pura!”, esclamai rapido mentre gli altri in coro gridavano “Impura”. La mortificazione, la consapevolezza d’aver tradito l’aspettativa del maestro, mi fecero venire le lacrime agli occhi. Per qualche giorno fui convinto che Goliardo Violini evitasse di guardarmi.
Ero divenuto il disegnatore di classe. Non so quanti ricordino che nelle scuole elementari di un tempo v’era l’uso di disegnare mensilmente gli alberi e la frutta stagionale su tabelloni che andavano affissi alla parete a scopi didattici e a testimonianza della laboriosità della scolaresca. Ogni allievo veniva solitamente chiamato a dare saggio della propria capacità. Ma si sa come vanno queste cose.
Fatto sta che ogni insegnante aveva la civetteria di esporre i migliori disegni e io me la cavavo non male. Goliardo Violini mi aveva apprezzato esplicitamente una volta che, alla lavagna, avevo raffigurato in qualche modo un fatto di cronaca dal quale ero rimasto molto impressionato: l’uccisione a Marsiglia di Alessandro I di Jugoslavia da parte di un terrorista croato. Malgrado mi fossi ispirato alla tavola di Beltrame apparsa sulla “Domenica del Corriere”, della quale ero affamato lettore perché rappresentava a quel tempo il fascinoso mezzo dei miei viaggi intorno al mondo, i compagni di classe non compresero il riferimento e mi diedero la baia per la stravaganza del tema: un losco figuro che, inerpicato sulla predella di una autovettura scoperta, punta la pistola contro un personaggio in uniforme con al fianco l’elegante consorte. Goliardo Violini impose il silenzio e con aria austera spiegò il drammatico episodio, richiamò l’attenzione di tutti sull’esigenza di seguire l’attualità e infine tenne una breve lezione di storia per lumeggiare la situazione dei paesi balcanici di seguito alla grande guerra.
Quell’occasione fu determinante per la scelta del disegnatore di classe, sicché il maestro fini per affidarmi il compito in esclusiva. Spesso mi faceva sedere alla cattedra mentr’egli si aggirava tra i banchi tenendo lezione e mi lasciava alle prese con matite e tabelle non senza qualche suggerimento come “Guarda quel platano fuori della finestra. Copialo più fedelmente che puoi”. Spesso, anche, perfezionava egli stesso i miei lavoretti. Qualche volta mi lasciò solo nell’aula a disegnare mentre egli conduceva la classe in palestra. In quelle occasioni realizzai i peggiori prodotti. Il maestro aveva l’abitudine di requisirci qualsiasi oggetto ci facessimo sorprendere nelle mani di estraneo alla scuola e lo conservava nel cassetto della cattedra dove ormai giacevano alla rinfusa piccole biglie multicolori, figurine sportive, dischetti di cartone argentato con l’effigie dei campioni dello sport, una piccola armonica a bocca, fionde, scatolini di cartone con petali di rosa rinsecchiti, di quelli che i ragazzi usavano per le zizze, gli straordinari coleotteri dalla corazza turchina. lo m’immergevo in quella meravigliosa dimensione e mi riportavo alla realtà, quindi al disegno, soltanto pochi istanti prima che la classe facesse ritorno. Credo che egli avesse intuito le mie incantate esplorazioni all’interno del suo cassetto.
Con il nuovo anno scolastico scoprimmo, ciascuno per proprio conto, di volerci bene.
Ricordo che ci fu un tempo in cui si parlò nuovamente di guerra (ma quando non se n’é parlato?) e la sera, a letto prima di. prender sonno, pregavo che alla guerra non andassero né mio padre né il mio maestro. Mi sentivo un po’ in colpa verso mio padre, quasi gli sottraessi qualcosa. Pregai per molte sere, con serietà e convinzione, temendo di non meritare d’essere ascoltato.
Nel mese di marzo di quell’anno la mia famiglia si trasferì dalle Marche in Campania. Non capii subito che avrei dovuto separarmi da Goliardo Violini. Quando mancarono pochi giorni alla partenza gli chiesi i miei quaderni di classe, dai quali non volevo separarmi. La prima volta che lo feci non mi rispose; quando li chiesi di nuovo mi apostrofò bruscamente “Hai tanta fretta di portarli via, i tuoi quaderni?”.
Mortificato, ancora non capii.
Il giorno in cui per l’ultima volta varcai in entrata il cancello della scuola avevo con me non i libri ma un pacchettino e cinque garofani rossi. Appena in aula porsi i garofani al maestro e, con disinvoltura ancora minore, il pacchettino. Egli ne trasse un portamonete, non prezioso ma, lo spero ancora, almeno grazioso. Goliardo Violini restò per qualche attimo imbarazzato. Frugò nel cassetto, poi nel proprio portafogli, ne trasse una vecchia tessera e usando un temperino ne staccò pazientemente la sua foto sul retro della quale incollò carta bianca ritagliandola a filo. Intorno a noi, frattanto, la scolaresca tumultuava, non usa ad essere trascurata. Dietro la piccola foto, sulla carta ancora umida di colla, egli scrisse qualcosa.
Poi tornai al mio solito posto, per l’ultima volta. Allora mi resi conto di quel che stava accadendo e avvertii una immensa tristezza. Mi accomiatai dopo non molto. I compagni mi riempirono le tasche di dischetti argentei con l’immagine dei loro campioni, di biglie variopinte, di elastici e di gomme per cancellare. Sembrò una festa e non lo era affatto ma ancora oggi, con i capelli bianchi, il cuore mi si riscalda al ricordo di tutto quell’amore. Goliardo Violini mi accompagnò fuori dell’aula, mi scortò per i corridoi sino alla prima rampa di scale. Camminando vicini non scambiammo parola. Sugli scalini egli si fermò. Mi consegnò un anellino di stagno “Questo te lo dà Rita, non ha avuto il coraggio di farlo personalmente” disse. Rita era una compagna di classe, bruttina e introversa. Non l’ho ringraziata e il suo cognome s’è perso, ingoiato dalla nebbia del tempo. Goliardo Violini, lungo e magro, si curvò su di me, mi passò un braccio sulle esili spalle, forse un pochino mi fece male, e mi diede un rapido bacio. Volse la testa ancor più rapidamente, celando qualcosa al mio sguardo, e mi lasciò sulle scale, con l’anellino di Rita fra le mani.
Scendendo i gradini lentamente forse preda d’una di quelle intuizioni che consentono non soltanto agli adulti di comprendere la misura degli avvenimenti trassi dalla tasca la foto di Goliardo Violini e lessi la dedica “Al mio caro allievo, con l’augurio di essere nella vita quello che è stato con me a scuola”.
Non so se Violini sia mai stato consapevole d’essere “Maestro”, assai più che insegnante. Non ci siamo più rivisti, ma avrei voluto. Per dirgli che quel lontano augurio ha avuto nella mia esistenza la forza di imperiosa voce interiore, una legge alla quale mi è stato dolce obbedire contro lusinghe e incertezze. Avrei voluto che lo sapesse perché ogni uomo dovrebbe sapere quanto può contare nella vita di un altro. Ogni uomo dovrebbe saperlo, per sapere anche che il destino del mondo non è nelle stelle ma dentro se stesso.