i racconti - Nemmonnemmai

causa d'onore

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introduzione, prefazione, in piazza del Santo, quando non va, il Maestro, il chewingum, Giorgia, il treno, Ares contro Eros, il Potere, la fila, nemmonnemmai, il dubbio.


Raramente avevo letto tanta tristezza in uno sguardo e ancor più raramente mi era capitato di scorgere un corpo ancora giovane, che diversamente sarebbe stato anche piacevole a vedersi, così palesemente accasciato, ripiegato su se stesso come se fosse minato da un morbo in fase terminale. L’abbigliamento dell’uomo era tuttavia accurato, anche se la giacca di taglio sportivo gli cascava addosso soprattutto intorno alle spalle incurvate. Era biondo con gli occhi chiari, il volto incupito dalla mestizia che non cancellava del tutto il garbo dei lineamenti.
Era entrato nello studio legale poco dopo che la solerte segretaria mi aveva invitato ad accomodarmi nel salottino avvertendomi:
- Dovrà avere la cortesia di attendere, l’avvocato è impegnato in una transazione che gli prenderà ancora del tempo. La prega di scusarlo.
Scelta una delle riviste sul tavolinetto avevo appena cominciato a sfogliarla quando l’altro aveva varcato la soglia d’ingresso spingendo la bussola a vetro e guardandosi intorno. Anche a lui la segretaria aveva detto cortesemente:
- Si accomodi, ci sarà da attendere. L’avvocato Manfredi ha telefonato ora dal tribunale, sarà qui tra una mezzoretta. Abbia pazienza.
La ragazza si era allontanata rapida e l’uomo, che mi aveva rivolto un cenno di saluto col capo, mi aveva chiesto:
- Anche lei attende il penalista?
- No - avevo risposto - sono qui per un patrocinio civile.
- Mi scusi, l’ho chiesto per regolarmi.
L’avevo osservato di sottecchi. Se ne stava immobile, guardando verso la finestra, con quell’aria che tradiva un’immensa afflizione e che aveva finito con l’incuriosirmi.
Poi ero stato ricevuto dal civilista e al termine, nel lasciare lo studio, avevo scorto l’uomo ancora in attesa, seduto nella poltrona del salottino, gli occhi fissi alla finestra.
Lo rividi dopo qualche giorno, nei corridoi del palazzo di giustizia. Si aggirava con espressione tormentata e lo sguardo vuoto, infelice. Obbedii all’impulso di salutarlo e lui, quasi trasalendo, mi scrutò e dando segno di riconoscermi rispose a fior di labbra tentando un sorriso. Mi avvicinai cercando qualcosa da dirgli:
- È qui per l’udienza?
Scosse la testa rispondendo:
- No, spero di incontrare l’avvocato.
Non seppi vincermi. Con aria di comprensione osservai:
- Lei è molto angustiato. Si tratta di cosa seria?
- Molto seria.
Non mostrava insofferenza alle mie domande e insistei:
- Lei è parte lesa?
Questa volta esitò prima di mormorare:
- Non in senso tecnico. Il processo concerne mio figlio, è colpevole di omicidio.
- Oh, mi dispiace! Non avrei immaginato... La prego di scusarmi, sono stato veramente indiscreto.
- Ma no. La vicenda, del resto, è notissima. Non ha seguito anche lei il caso dell’uomo ucciso dal figlio della donna che egli aveva sedotta? È stato circa sei mesi addietro, cinque mesi e diciotto giorni, per l’esattezza, non lo ricorda?
- No, non conosco il fatto. Sono rientrato dall’estero solo da poco tempo. Sto appunto tentando di farmi riconsegnare l’appartamento dall’inquilino che lo occupa da un paio di anni.
Avevo menzionato il mio problema per darmi un contegno. In verità ora mi sentivo imbarazzato da quel che avevo appreso anche se avvertivo più acuto il desiderio di saperne di più. Ma subito l’altro aggiunse senza alcuna reticenza:
- Mio figlio è un ragazzo, è rinchiuso nel carcere minorile. Non ha ancora sedici anni.
Continuando a camminare, mentre parlavamo, eravamo venuti a trovarci tra la folla che si incrociava a uno degli ingressi secondari del palazzo. Scambiandoci uno sguardo d’intesa uscimmo all’aperto, scendemmo la scalinata, ci avviammo verso il giardino pubblico oltre la strada a fianco dell’edificio e, di tacito accordo, ci sedemmo su una delle panchine metalliche sotto gli alberi.
L’uomo riprese a parlare senza guardarmi:
- Il ragazzo ha ucciso quell’uomo in pubblico, con sei colpi di pistola. L’arma era mia, l’avevo da tempo e mio figlio lo sapeva. L’ha ucciso per evitare che lo facessi io.
Io tacqui, conscio che l’altro aveva bisogno di parlare e aveva compreso che ero disposto ad ascoltarlo. Infatti riprese:
- Mi sono sposato giovanissimo, a vent’anni, mia moglie ne aveva diciotto. Un matrimonio d’amore, con un figlio nato dopo soli dieci mesi. Lavoravo già nell’azienda paterna della quale oggi sono titolare, una piccola ma redditizia industria del legno. Una bella casa, vacanze felici, molti amici affettuosi, un’esistenza tranquilla come l’avevamo desiderata. E, soprattutto, un’intesa assoluta con mia moglie, una confidenza senza limiti, un amore senza timore di ombre.
Per un momento sembrò perdersi dietro i ricordi. Lo incoraggiai:
- Cosa è avvenuto?
- Ha conosciuto quell’uomo. Eravamo insieme quando ce lo presentarono e lei non gli nascose la propria immediata avversione. Ci era nota la sua fama di sciupafemmine, che lui stesso ostentava con iattanza. Era un bell’uomo, certo, dotato di una dialettica tanto facile e suadente quanto, per l’appunto, spregiudicata. Non nascose a mia moglie, sin dal primo momento e alla mia stessa presenza, di esserne incantato e di sperare di rivederla. Era alto e robusto e nel protendersi verso di lei come a tentare il contatto dei corpi non nascondeva la propria indole aggressiva. A me che lo guardavo già risentito, e cercavo di allontanare mia moglie, non rivolse nemmeno lo sguardo. Allora commettemmo il primo errore, quando lei palesemente infastidita gli disse: è improbabile che ci rivediamo, io non frequento il suo ambiente. A casa ne discutemmo e lei finì col riconoscere che avrebbe fatto meglio a tacere o ad evitare il trasparente sarcasmo.
Poco più in là della nostra panchina un bambino, sotto l’occhio vigile di una donna anziana, inseguiva i passeri che saltellavano al suolo in cerca di cibo.
- Mia moglie non se lo tolse più di torno. Puntualmente mi riferiva di trovarlo ad attenderla in prossimità del portone nelle ore in cui era solita uscire da casa. Si limitava a salutarla e a seguirla a discreta distanza. Se lei si fermava davanti a una vetrina egli faceva la stessa cosa, sempre in silenzio. Se mia moglie entrava in un negozio egli l’attendeva fuori facendo il possibile per non distogliere gli occhi da lei. Una persecuzione. Mia moglie me ne parlava perché da sempre ci eravamo promessi di non nasconderei nulla e insieme sperammo che la cosa finisse come era cominciata. Quando comprendemmo che la nostra speranza era vana cademmo nel secondo errore, questa volta da parte mia perché affrontai l’uomo intimandogli di smetterla.
- E lui?
- Mi squadrò dall’alto della sua statura e ribatté con calma irritante: saluto sua moglie quando l’incontro, e allora? Ci capita di fare la stessa strada, e allora? Mi sembra che lei si bagni prima che piova. Gradirei che non mi infastidisse.
- Lei cosa gli ha risposto?
- Che ci capivamo benissimo e che ero io a vietargli di infastidirci se voleva evitare guai. Lui abbozzò un sorriso ironico e girate le spalle si allontanò.
- Poi cosa è successo?
- Continuò imperterrito nei suoi comportamenti. Mi recai al Commissariato di polizia, raccontai la cosa e mi sentii rispondere che non potevano farci nulla, aggravando la mia mortificazione con il consiglio di non drammatizzare una situazione forse più immaginaria che reale. Allora, fuori di me, commisi il terzo errore, lo affrontai di nuovo e gli dissi senza preamboli: se continui succederà qualcosa di brutto.
- Come ha reagito?
- Ha riso, poi mi ha detto con la consueta aria sprezzante: vuoi conservarti la moglie? È affar tuo. Ricordati che non ne hai la proprietà, nessuno possiede un altro essere umano. Se tua moglie un giorno deciderà di scegliersi un altro uomo non potrai impedirlo in alcun modo. E quanto a me non puoi proibirmi di ammirarla quando ho l’occasione, smettila con le minacce. Intanto sappi che non ti temo e poi convinciti che sei un esaltato se pensi che di una donna si possa avere l’esclusiva.
- È stato allora che lei ha deciso di ucciderlo?
L’uomo emise un profondo sospiro prima di rispondere:
- No, sono stato per scagliarmi su di lui ma il ritegno di abbandonarmi ad una volgare e inconcludente scazzottata ha prevalso sull’ira. Dominandomi con grande sforzo gli ho detto che se era me che voleva mettere alla prova gli avrei dimostrato che non parlavo invano. Ma il peggio doveva venire. Un giorno mia moglie mi riferì che quella mattina, passandole accanto, lui le aveva mormorato: per te sono pronto a rischiare la vita.
- Era la prima volta che le parlava?
- Sì, era la prima volta. Poi accadde che scorgessi mia moglie turbata e vagamente reticente. Non era mai capitato che dovessi insistere per farla parlare e infine lo fece con estremo imbarazzo. Disse che durante la notte precedente aveva sognato di far l’amore con lui e al mio incalzare ammise che era stato come se la cosa accadesse con il proprio consenso e che le sensazioni provate erano state fortissime tanto che non avrebbe saputo dire se l’orgasmo avesse fatto parte del sogno o non fosse stato invece autentico.
- Capisco. Agghiacciante!
- Già. Mi sentii morire. lo non so se siano i sogni a far affiorare il subcosciente o invece non siano essi ad accendere fantasie, ma so per certo che in ogni caso quelli erotici sono destinati a radicare irresistibili pulsioni, agiscono come una quinta colonna all’interno dei nostri desideri. Da quel momento ho capito che lei era veramente in pericolo perché avrebbe dovuto forse lottare anche con se stessa. E fu così e lei, non ho saputo come né quando, rimase sconfitta. So soltanto che un giorno, piangendo disperatamente, mi ha detto di aver ceduto a quell’uomo, di essere stata vinta dal tarlo che le era entrato nella mente e poi nei sensi, di amarmi ancora intensamente e di non sopportare la vergogna anche nei confronti di nostro figlio, di sentirsi indegna di noi e di volersene andare perché stava conoscendo una sofferenza insopportabile.
- Lei l’ha lasciata andare?
- Abbiamo vissuto un incubo, lo può immaginare. lo, pur combattuto indicibilmente, l’ho scongiurata di restare, senza risultato. È stata irremovibile, ripeteva che non l’avrei mai perdonata e che, se anche mi fossi impegnato a tentarlo, nulla sarebbe tornato come prima e che comunque era lei, sopraffatta dal rimorso, a non sentirsi più la stessa.
- Andò a vivere con l’altro?
- No, affatto. Lui aveva intanto ripreso la sua vita di sempre, dietro altre donne.
- E come è stato che suo figlio…. ?
- È successo che ho cercato quell’uomo per fare non so bene cosa, a ucciderlo non pensavo ancora veramente, credo. Ma quando me lo sono trovato davanti ho saputo dirgli soltanto: ti ammazzerò. Lui, senza scomporsi, ha replicato brutalmente: e perché? Ammazza tua moglie, semmai. È lei che ti ha tradito, non io, io non ho mai avuto alcun obbligo verso di te. È lei che lo ha voluto, quando ha creduto di sfidarmi, lei, con la virtù stampata sul volto come un marchio di qualità, con l’ostentazione della sua fasulla fedeltà a te, con il suo evidente disprezzo per la mia persona. Và là, oltre che a tua moglie ho reso un servizio anche a te, ti ho dimostrato che eri solo un illuso. Quanto a lei, non può non essersi riconosciuta quando ha potuto intuirsi come la vedevo io, con il volto corrotto dal piacere. Le avevo detto che volevo fare l’amore così, con la luce accesa, per godere lo splendore del suo corpo. La verità è che non volevo perdere lo spettacolo della sua capitolazione mentre stanavo la bestia dentro di lei, quella che probabilmente tu non sei mai riuscito a far venire fuori.
Era come in trance, l’uomo accanto a me. Aveva chiaramente rivissuto la sua disperazione e io tacqui, mancandomi qualsiasi parola di conforto. Lasciò trascorrere ancora qualche istante prima di riprendere a parlare:
- Se avessi avuto la pistola lo avrei ucciso in quel momento. Il suo feroce cinismo mi fece capire che voleva schiantarmi, compresi perché di lui si diceva che preferisse le donne maritate. Dopo aver goduto di mia moglie non aveva tralasciato l’occasione di godere spietatamente anche del mio dolore rendendomi in qualche modo spettatore postumo della sua profanazione. Corsi a casa e presi la pistola per rimettermi sulle sue tracce.
Fece un’altra pausa e mi chiese una sigaretta. Aspirate alcune boccate disse:
- È da allora che non fumo, me ne sto rendendo conto adesso. Eppure ho sempre fumato moltissimo.
Stette qualche istante ad osservare la sigaretta che bruciava e quindi parlò nuovamente:
- Ero nel mio studio, con la pistola fra le mani, quando fui sorpreso da mio figlio.
Gridò: papà, che fai? Capii che aveva frainteso e lo rassicurai. Non era a me stesso che volevo togliere la vita, gli dissi, ma all’altro. È stato, quello, il discorso più penoso avuto con lui, malgrado fra noi ce ne siano stati tanti dopo che mia moglie se n’é andata. È un ragazzo precoce, intelligente, sensibile. Un figlio adorabile, unito alla madre morbosamente.

Notai che la donna anziana, distogliendo di tanto in tanto lo sguardo dal bambino che correva fra le aiole, guardava incuriosita l’uomo che accanto a me sembrava parlare a se stesso.
- Mi scongiurò di non fare pazzie, mi supplicò di rinunziare a rovinarci definitivamente, di non lasciarlo solo. Aveva ragione eppure ipocritamente gli promisi di ripensarci, più che mai deciso invece ad uccidere. E lui finse di credermi. Gli feci vedere che riponevo la pistola nel cassetto e, mentre uscivo di nuovo per convincerlo che volevo pensare ad altro, mi sembrò che fosse relativamente tranquillo. Quando rincasai, sul tardi, lui non c’era e, al posto della pistola, trovai questa lettera.
La trasse dalla tasca interna della giacca e me la porse dicendo: l’avvocato mi ha consigliato di tenerla per me, per ora.
Lessi: "Caro papà, non farti giustizia, questo diritto è mio anche perché è più rispettabile quel che tu hai già fatto nella vita che non quello che, ormai, potrei fare io nel mio futuro. Ma soprattutto perché quell’uomo mi ha colpito molto più crudelmente di quanto non abbia fatto con te. Tu hai perso l’amore, io ho perso la madre. La nostra vita è stata sconvolta ma ancora non riesco a darne la colpa a lei, so che non ci riuscirò mai. Nel mio cuore ella resta la donna che mi ha generato e che mi ha cresciuto con tenerezza infinita. Ci ha lasciati perché non reggeva al rimorso ma non è lei la colpevole della mia e della tua infelicità. Quando leggerai questa lettera, forse, quell’uomo avrà già pagato. Mi stringo a te con tutto l’affetto del quale sono capace".
Gli restituii il foglio senza parlare. Lui ebbe un sorriso amaro, appena accennato.
- Viviamo in una società senza senso, che non sa curare i propri mali e alleva mostri. La fedeltà coniugale, sulla quale riposano la sopravvivenza della famiglia e il destino dei figli non meno che l’armonia della coppia, è un cardine dell’ordinamento sociale prima ancora che un Valore morale dei singoli non disposti a seguire le mode. Eppure l’adulterio è perseguibile soltanto su querela come delitto contro la persona e non anche contro la società e inoltre, quasi a strizzare l’occhio alla trasgressione, è stata abrogata per anacronismo l’attenuante concessa ai delitti per causa d’onore, che di sbagliato aveva invece la definizione. Cosa c’entra l’onore con quello che è accaduto a me e al mio ragazzo? Quell’uomo ha commesso un crimine, ci ha tolto la vita svuotandola di ogni bene e mio figlio l’ha ucciso, come avrei fatto io, travolto da una violenza nella quale la legge non riconosce reato. La legge ignora l’esistenza dell’anima, tutela chi ne è privo e punisce chi non rinunzia alla propria.
Ripose in tasca la lettera, si alzò dalla panchina e dopo un triste cenno di saluto, che forse voleva anche esprimere la gratitudine verso chi l’aveva ascoltato, s’allontanò lungo i vialetti col passo incerto e le spalle incurvate.

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